Open post

Cresce l’export del legno-arredo Made in Italy, ma rallenta la sua corsa

Il settore del legno-arredo italiano continua ad avere successo sui mercati esteri, e l’export vola. A dirlo sono gli ultimi dati del Centro Studi di FederlegnoArredo, elaborati su fonti Istat. Nonostante le ottime performance, in particolare quelle di Lombardia, Veneto e Friuli che rappresentano il 70% dell’esportato, il comparto registra però una battuta d’arresto sulla corsa degli ultimi mesi. 

Esportazioni per oltre 15 miliardi

Le esportazioni della filiera legno-arredo nei primi nove mesi del 2022 sono state pari a circa 15,6 miliardi di euro e sono cresciute complessivamente in tutte le regioni italiane del 16%, rispetto allo stesso periodo del 2021. Un dato ancora positivo, ma che evidenzia il rallentamento in essere ormai da tempo: basti pensare che nel semestre gennaio-giugno 2022 la crescita di export della filiera era stata del 18,4%, decrescendo trimestre dopo trimestre nel confronto con i trimestri del ’21: dal +21% del primo trimestre, al +16% del secondo al +11% di luglio-settembre 2022. 

Lombardia, Veneto e Friuli sul podio

La Lombardia (3,7 miliardi di euro) con il +18,8% di export di filiera si conferma tendenzialmente stabile rispetto al risultato di gennaio-giugno (+19%) e di luglio-settembre +18,4%. Confrontando i primi tre trimestri ’22 con i trimestri ’21, si passa dal +22,8% di gennaio-marzo, al +15,8% di aprile-giugno per poi risalire a luglio-settembre al 18,4%. Esporta principalmente in Francia (+14,5%) ma ha registrato la crescita più consistente negli Stati Uniti – secondo mercato di sbocco – con un +30,7%, mentre negli Emirati Arabi Uniti – decimo mercato – la crescita è stata del +27,7%. Il Veneto (3 miliardi di euro) presenta invece qualche segno di rallentamento, passando dal +15,5% di gennaio giugno 2022, al +14,5% di gennaio-settembre e con un luglio-settembre che scende a +12,3%, arretrando di circa 2 punti dal primo trimestre (+14,6%) e di ben 4 punti dal secondo trimestre (+16,4%). La regione ha in Germania lo sbocco principale per il suo export, dove la crescita è del +19,1%, ma sono le esportazioni verso il Belgio – settimo mercato – con un +20,5% a decretarlo il Paese con la crescita maggiore tra i Paesi più significativi. Il Friuli Venezia Giulia (1,9 miliardi di euro) con un +21,7% è la regione che ha registrato la variazione percentuale più alta nei primi 9 mesi del 2022, ma allo stesso tempo è quella che ha registrato la frenata più brusca rispetto al +25% del semestre precedente, con i trimestri che evidenziano un calo rispetto al ’21 pari a oltre 11 punti percentuali.

I mobili il bene più esportato

A livello di comparti, riferisce Askanews, sono i mobili ad essere ancora i più significativi della filiera per valore esportato (oltre 9 miliardi di euro complessivi) con una crescita del +16% nel periodo gennaio-settembre 2022. Nel primo semestre dell’anno il comparto aveva invece raggiunto il +18,2% per poi, scendere al +11,5% di luglio-settembre 2022. Rispecchiando a grandi linee l’andamento nel suo complesso della filiera legno-arredo, che è particolarmente votata proprio all’export di mobili.

Open post

Criptovalute: quali sono le criticità e le barriere agli investimenti?

Kaspersky ha analizzato le tendenze degli utenti in materia di criptovalute, e ha scoperto che quasi la metà teme di perdere denaro a causa della loro volatilità o non utilizza più le valute digitali. Alcuni intervistati, inoltre, hanno già registrato perdite di denaro, e di conseguenza hanno smesso di investire.
È l’instabilità uno dei principali freni a una più ampia adozione delle criptovalute. Il calo del mercato nel 2022, unito alle continue attività dannose, ha infatti causato mancanza di liquidità e incertezza sugli investimenti tra i possessori di criptovalute. Si tratta di criticità che spaventano i titolari di valute digitali, spingendo alcuni a evitare di investire, o addirittura ad abbandonare del tutto il settore.

Il timore di perdere il proprio denaro

Il 48% degli intervistati ha dichiarato di temere di usare le criptovalute per non rischiare di perdere il proprio denaro. Purtroppo il 10% degli intervistati ha già subito perdite a causa di un calo del valore della valuta. Allo stesso modo, il 61% che non possiede criptovalute ha dichiarato di rifiutarsi di utilizzarle perché preoccupato di mettere a rischio il proprio denaro. Altri ostacoli all’adozione includono la mancanza di risorse concrete a sostegno delle criptovalute (14%), e il rischio di rivelare dati personali durante un cyberattacco (6%).

Le aspettative e i rimpianti degli utenti

Questi risultati, supportati dal fatto che un intervistato su otto non si fida più delle criptovalute, suggeriscono che la stabilità e la sicurezza sono questioni fondamentali per una più ampia adozione.
Per quanto riguarda le aspettative degli utenti, il quadro è piuttosto eterogeneo. Nella regione Asia-Pacifico, il 41% degli intervistati ha dichiarato che le proprie attese sono state superate, mentre il 35% ha affermato che non sono state soddisfatte. Tuttavia, in Europa, dove i rimpianti per gli investimenti in criptovalute sono stati più comuni, il 41% ha dichiarato che le proprie aspettative sono state soddisfatte solo in parte o per niente, a fronte di un 26% che ha dichiarato che le criptovalute hanno soddisfatto le proprie attese.

“Uno spazio relativamente nuovo e innovativo con un enorme potenziale”

“Nonostante le sfide che il settore delle criptovalute sta affrontando, è importante ricordare che si tratta ancora di uno spazio relativamente nuovo e innovativo con un enorme potenziale – ha commentato Marc Rivero, Senior Security Researcher di Kaspersky’s Global Research and Analysis Team -. Come per ogni tecnologia emergente, ci potranno essere difficoltà di crescita e battute d’arresto, ma le prospettive a lungo termine per le criptovalute potrebbero essere ancora rosee. Dando priorità alla sicurezza, gli investitori in criptovalute possono ridurre al minimo il rischio di perdere denaro o informazioni personali, e proteggersi dalle minacce che dipendono da loro”.

Open post

Il gelato artigianale? Un business da 2 miliardi di euro l’anno

Due miliardi di euro l’anno: tanto vale il comparto del gelato artigianale in Italia. A dirlo è una recente ricerca condotta dalla Cgia di Mestre, realizzata appositamente per la Mig 2022, Mostra internazionale del gelato a Longarone Fiere. In sintesi, si scopre che il gelato made in Italy – oltre a essere uno dei prodotti più apprezzati della nostra gastronomia – è anche un volano di primo piano per l’economia e per l’occupazione. Muove infatti oltre 70mila posti di lavoro. Secondo le stime della Cgia, il fatturato del comparto del gelato si aggira sui 2,1 miliardi, di cui poco meno della metà ascrivibili al solo settore artigianale. Il consumo di gelato da parte dei residenti è di circa 1,7 miliardi di euro – secondo l’Istat ogni famiglia in Italia nel 2021 ha speso quasi 70 euro in gelato – ma va aggiunto anche l’apporto dei turisti, tornati a visitare le nostre località di vacanza.

Quante imprese?

L’intero comparto del gelato, individuato dai codici Ateco insieme alle pasticcerie, conta al 30 settembre 2022 18.885 sedi di impresa attive per un totale di 25.528 localizzazioni e 76.778 addetti. Si tratta di un comparto in crescita costante dal 2014 in avanti, con un aumento delle localizzazioni che ha conosciuto una sosta solo nel 2020, anno del Covid. Tuttavia, i numeri sono stati prontamente recuperati nel biennio 2021-2022. Il mondo artigiano (inserito per la gran parte nei Codici Ateco 56.10.3 “Gelaterie e pasticcerie” e 56.10.41 “Gelaterie e pasticcerie ambulanti”) viene stimato nel report Cgia in 15.719 imprese, per un totale di oltre 21mila punti vendita, circa 62 mila addetti interessati e 30mila unità di lavoro sostenute dai ricavi del gelato artigianale.

Laboratori soprattutto in Lombardia 

A livello territoriale, i laboratori di produzione artigianale del gelato sono concentrati soprattutto in Lombardia (2.120 sedi di impresa), Sicilia (1.610), Campania (1.564), Lazio (1.453), Veneto (1.305) ed Emilia Romagna (1.235). La densità delle sedi attive mette in cima alla classifica le province siciliane, le località marittime di Calabria, Toscana e Liguria, ma anche le province venete, in particolare Venezia (37 sedi ogni 100mila abitanti) e Belluno (38 sedi ogni 100mila abitanti). Non per niente la provincia dolomitica è riconosciuta come patria del gelato artigianale, luogo d’origine di grandi maestri gelatieri che da 63 anni propone la Mig – Mostra internazionale del gelato.

Open post

PMI e sicurezza informatica, il 68% non ha un piano di Disaster Recovery

Per moltissime piccole e medie aziende italiane un piano di Disaster Recovery non è un’opzione, nemmeno per il futuro. Lo rivela una recente ricerca condotta da Bva Doxa per Aruba sul tema della conservazione e sicurezza dei dati, e, nello specifico, sulla disponibilità di piani di Disaster Recovery nelle PMI del nostro paese. Più nel dettaglio, l’analisi evidenzia che il 68% delle piccole e medie aziende italiane non è intenzionata ad adottare una soluzione di Disaster Recovery neanche nel lungo periodo. Ma è possibile prevenire un evento disastroso in ambito IT o un cyber-attacco? Non sempre, ma sicuramente è possibile limitarne i danni. Ancor più nel 2022 si conferma un nuovo approccio che vede il Disaster Recovery non più come un piano B ma come una componente basilare da considerare in fase di progettazione. Ripristinare l’accesso e la funzionalità dell’infrastruttura IT a causa di attacchi informatici, interruzioni e guasti, rappresenta per le aziende la soluzione “as a service” più importante da implementare per garantire la propria business continuity. Eppure, il 73% delle PMI italiane non è dotata di un piano di Disaster Recovery.

Solo 1 azienda su 4 si è “attrezzata”

Poco più di un’azienda su 4 è dotata di un piano di Disaster Recovery, con un’incidenza leggermente più elevata riscontrata tra le medie imprese (31%). Più incoraggianti i dati legati al segmento degli esercizi pubblici, quali alberghi, ristoranti e bar: in questo settore a disporre di un piano di Disaster Recovery è il 49% degli intervistati.
Stando ai risultati della ricerca, il 68% delle PMI intervistate non è interessato ad introdurre piani per il ripristino dei dati neanche nel lungo periodo. Di queste, l’80% delle piccole imprese non pianifica l’adozione di un sistema di Disaster Recovery neanche nel prossimo futuro, a fronte del 53% delle medie imprese. Eppure, come già reso noto in una recente Survey targata BVA Doxa-Aruba, 7 aziende su 100 hanno sperimentato una perdita di dati nel corso degli ultimi anni, subendo in media un downtime di quasi 2 giorni e con danni economici non quantificabili per il 43% degli intervistati. Tra l’altro dalla stessa indagine è emerso che una PMI su 4 dichiarasse di non disporre neanche di una soluzione di backup; attestando, invece, al 57% la percentuale di aziende dotate di un backup in cloud.

La differenza fra Backup e Disaster Recovery

“Backup e Disaster Recovery hanno due scopi profondamente diversi ma al contempo complementari. Il primo mira a salvaguardare il dato in seguito a cancellazioni, errori umani o in generale perdita dati. Il secondo protegge il sistema nel suo complesso, compreso il sito di erogazione, garantendo una ripartenza in tempi certi ed in qualunque circostanza, anche a seguito di disastri ambientali o catastrofici, andando quindi oltre il concetto di dato ed includendo invece tutto quello che gli orbita intorno – spiega Lorenzo Giuntini, CTO di Aruba – Visti i pericoli, anche potenzialmente disastrosi, a cui si espone un’azienda priva di questi servizi, la strategia più corretta per la sua tutela è quella di implementare entrambe le soluzioni. Per farlo non esiste un’unica via: la scelta delle soluzioni e delle modalità più adatte passa attraverso un’attenta analisi dei rischi, la classificazione dei dati e la definizione del perimetro di protezione. Solo in questo modo è possibile costruire l’infrastruttura più adeguata a garantire e ad assicurare la continuità operativa aziendale in ogni condizione.”

Open post

Rincari e finanziamenti più gravosi mettono a rischio le imprese lombarde

La tensione sui rifornimenti energetici già preannunciata a fine 2021 è stata esacerbata dalle conseguenze del conflitto in Ucraina, con forti rincari per tutti i prodotti, soprattutto il gas. Lo confermano le imprese lombarde, che già nel secondo trimestre dell’anno segnalano rincari compresi tra il 40% e il 50% per gas ed elettricità nella maggior parte dei settori. Il focus di approfondimento di Unioncamere Lombardia su approvvigionamento energetico e accesso al credito per i principali settori economici lombardi riporta quindi segnali di preoccupazione per la tenuta della fase di crescita innescata nel 2022. Questo, nonostante il secondo trimestre dell’anno abbia ancora registrato andamenti positivi.

L’industria è penalizzata da settori fortemente energivori

La situazione è più grave nell’industria manifatturiera, dove il costo del gas è sostanzialmente raddoppiato (+98,9%), mentre quello dell’elettricità cresce del +73,5%.
Il comparto industriale è infatti penalizzato da settori fortemente energivori, per i quali i rincari hanno assunto dimensioni eccezionali. La siderurgia registra a luglio variazioni di costo pari al +143% per il gas e +107% per l’elettricità, ma anche il tessile (+157% e +90%) e gli alimentari (+142% e +85%) mostrano incrementi molto rilevanti. Nel terziario si evidenziano in generale rincari inferiori, ma sempre ben al di sopra dell’inflazione, a eccezione di alberghi e ristoranti, dove i prezzi di gas ed elettricità sono aumentati del +76% sua base annua.

Il terziario è ancora poco autosufficiente

Per quanto riguarda l’autosufficienza, l’industria si rivela il settore più maturo nel percorso verso l’autonomia energetica. Un terzo delle imprese industriali (34%) è in grado di produrre almeno in parte l’energia di cui deve approvvigionarsi per le proprie attività, mentre negli altri settori la presenza di impianti è nettamente inferiore (21% per il commercio al dettaglio, 14% per l’artigianato, 12% per i servizi). L’impennata dei costi energetici si innesta su una situazione economica resa ulteriormente critica dall’aumento dei tassi di interesse, innescato dalle politiche restrittive messe in atto dalle banche centrali per contrastare l’inflazione.

Peggiorano le condizioni applicate per l’accesso al credito

Dal lato dell’accesso al credito, le imprese segnalano in particolare una crescita delle spese connesse alla richiesta di prestiti. In tutti i settori circa il 50% del campione registra un peggioramento per le condizioni applicate, tassi sui prestiti e costi complessivi del finanziamento. Occorre ricordare però come negli ultimi anni le imprese lombarde abbiano intrapreso un percorso di consolidamento dal punto di vista finanziario, che consente agli imprenditori di mantenere ancora una fiducia elevata nella propria capacità di far fronte al debito. La percentuale di intervistati che esprime preoccupazione su questo aspetto rimane minoritaria, con l’artigianato che registra i valori più critici (livello di preoccupazione pari a 33%), seguito dai servizi (25%) e dal commercio al dettaglio (25%), mentre le imprese industriali si confermano più solide (21%).

Open post

Occupazione, nel 2021 riprende la domanda di lavoro: i dati Inps

Buone notizie sul fronte dell’occupazione. A dare i “numeri” della ripresa è l’Inps, che ha analizzato l’andamento delle domande di lavoro del 2021. In sintesi, si registra una decisa ripresa rispetto al 2020, anche se non si ancora ritornati ai valori pre crisi del 2019. Il XXI Rapporto annuale dell’Inps, riporta Adnkronos, evidenzia che i segnali di recupero della domanda di lavoro nel 2021 risultano generalizzati a tutti i settori, con le variazioni più intense nelle costruzioni (+23%) e nella ricerca-selezione del personale (+24%).

La ripresa sul 2020

La domanda di lavoro nel 2021 ha fortemente recuperato rispetto al 2020 (+7,5%) ma è rimasta ancora al di sotto del livello del 2019: -1,7%, corrispondendo a circa 270.000 anni-uomo in meno (un ‘anno-uomo’ corrisponde a 312 giornate retribuite dal datore di lavoro nell’anno, al netto delle giornate eventualmente indennizzate per cig o malattia). Ciò è interamente dovuto al settore privato mentre nel comparto pubblico il livello della domanda è rimasto costante, grazie al fatto che la crescita nei comparti istruzione e sanità ha bilanciato l’andamento opposto delle amministrazioni centrali e locali.”In pochi comparti il livello della domanda ha superato quello del 2019: oltre alle costruzioni e al caso sui generis della selezione del personale, ciò è stato raggiunto da utilities, metalmeccanico, istruzione e sanità”, spiega l’Inps aggiungendo che gli ambiti nei quali la caduta della domanda appare ancora assai pronunciata sono alberghi e ristorazione (-27% sul 2019), tessile-abbigliamento-calzature (-12%), altri servizi quali intrattenimento (-11%). Se consideriamo solo le piccole imprese, fino a 15 dipendenti, si riscontra che – nonostante l’ottima dinamica di crescita evidenziata nel 2021 (+12%) – la distanza dal 2019 è tuttora nettamente più pronunciata (-7%) e superiore a quella media complessiva.

Cresce la domanda a tempo indeterminato 

Dal Rapporto pare che la domanda effettiva di lavoro espressa dalle imprese maggiori sia stata meno pesantemente condizionata dall’altalena generata dalla pandemia. La distribuzione della domanda per tipologia contrattuale e regimi di orario segnala che nel 2021 l’apporto del lavoro a tempo indeterminato è inferiore del 2,1% al livello 2019, quello del lavoro stagionale è sotto dell’11,2% mentre quello del lavoro a termine è modestamente superiore: +1,5%. Nel confronto con il 2020, la domanda a tempo indeterminato cresciuta (+5,3%) è frutto essenzialmente del rientro degli organici dalla cig, con il recupero seppur incompleto della contrazione 2020 quantificabile in un milione di unità di anni-uomo. Considerando la quota di domanda che ha interessato rapporti a part time si evidenzia – nonostante il rimbalzo nel 2021 particolarmente favorevole (+9,5%) – un livello ancora nettamente distante da quello del 2019 (-7,4%). Questa maggior variabilità dei rapporti a part time sottintende come all’orario di lavoro più corto sia associata, di fatto, anche una maggior flessibilità funzionale.

Posts navigation

1 2
Scroll to top